Problemi, e qualche idea, sulle trasformazioni e il ruolo delle riviste di cultura
di Guido Melis
Pongo una domanda iniziale, anzi tre: a cosa servono, oggi, le nostre riviste di cultura? Esiste, nella situazione attuale, uno specifico spazio per la loro attività? E se sì, come io credo, di quale spazio di tratta?
Una premessa, intanto. Dal dopoguerra sino più o meno agli anni ’70 le riviste di cultura, di varia tendenze e programmi, costituirono una forma specifica e molto influente dell’organizzazione degli intellettuali. Di più: rappresentarono l’ossatura, la nervatura interna, di un’architettura culturale che, alimentata
com’era dalle grandi ideologie politiche del ventesimo secolo, reggeva il Paese e in certo modo lo unificava, al di là delle cesure di allora, pure profondissime. Accadde per le eroiche riviste del periodo costituente, poi per quelle degli anni della guerra fredda e infine per quelle della ricostruzione. Fu così per la fioritura che seguì la grande gelata del ’56, per i laboratori fertili del primo esperimento di centro-sinistra. Furono le riviste di cultura a porre all’ordine del giorno le grandi questioni della modernizzazione del Paese: il lavoro e il riconoscimento dei diritti, la scuola e l’allargamento dell’istruzione, la riforma dello Stato, la programmazione economica, la revisione del marxismo stalinista verso la via italiana preconizzata da Togliatti, la fine della censura, l’uscita dal realismo verso aperture inedite alla ricerca artistica internazionale. “Il Ponte” di Calamandrei fu questo;, e “Paragone”, “Nord e Sud”, “Il Mulino”, “Nuovi Argomenti”; nella sinistra “Problemi del socialismo” “Rinascita”, “Mondo operaio”, “L’Astrolabio” di Parri; per non dire dell’insostituibile ruolo di giornali-rivista, a periodicità breve ma con contenuti alti, come fu “Il Mondo” di Mario Pannunzio (bisognerà forse scrivere una volta o l’altra la storia dei convegni degli “Amici del Mondo”) o di quell’esperimento, a metà tra la rivista e il settimanale di informazione politica che fu “L’Espresso” in foglio di Arrigo Benedetti. Persino il ’68 iconoclasta e rivoluzionario ebbe le sue riviste: “Quindici”, “Alfabeta” del gruppo 63, “Giovane critica” di Mughini, “Nuovo impegno” di Romano Luperini.
Potrei naturalmente citare molti altre testate. Ho tralasciato volutamente le riviste accademiche, o quelle disciplinari e scientifiche, limitandomi alle riviste culturali in senso stretto. La rivista culturale (non accademica ma anzi deliberatamente slegata dall’Università), meglio se autonoma dalla politica organizzata, espressione di gruppi, associazioni, tendenze, fu, prima del libro, e più dello stesso giornale, lo strumento non solo della ricerca innovativa, ma dell’organizzazione vera e propria degli intellettuali degli anni Sessanta. Un passo indietro (ma in certa misura anche un passo avanti) ai partiti.
Fu quella una stagione molto importante. Magari afflitta dalla endemica ignoranza di derivazione crociana rispetto alla cultura scientifica, ma tuttavia fertile laboratorio di idee a cui in molti attingevamo. In molti ci siamo formati in quelle riviste (ognuna di esse aveva – ricordo – le sue repliche in provincia, spesso non banali).
Poi sopraggiunse la frattura. Una frattura epocale, che coincise con l’avvento di una cultura di massa a sfondo diciamo così consumistico-edonistico, ma anche con le forme industriali necessariamente più evolute assunte dalle attività editoriali.
Processi che allora ci sfuggivano, ma che oggi, a posteriori, possiamo vedere meglio, come ad esempio la fine delle librerie come punto di incontro e promozione della cultura (cosa non sono state le librerie, promosse da eroici librai-intellettuali, nelle nostre città di provincia, specie al Sud: terminali preziosi dell’organizzazione culturale, luoghi di incontro tra generazioni più anziane e più giovani); e l’avvento delle grandi catene di distribuzione e degli anonimi megastore di carta stampata, quelli che oggi rifiutano di vendere le nostre riviste, perché in quel caos di prodotti, in quella offerta sovrabbondante, in quegli scaffali chiassosi, non c’è posto per loro.
Se ne è parlato ad esempio molto in questi mesi, sia pure in una sede riservata come quella del Mulino: ragionando su quella fondamentale rivista oggi efficacemente diretta da Michele Salvati; che fu nel dopoguerra lo strumento cruciale di un incontro culturale e politico tra liberali illuminati e cattolici progressisti, che espresse una classe dirigente, e che ebbe il merito di legittimare allora le scienze sociali e politiche tenute a lungo ai margini dalle chiusure crociane e postcrociane. E si è dovuto rilevare, in questa occasione, come anche quella gloriosa testate sia oggi schiacciata: da una parte dal libro, un libro però diverso da quelli del passato, spesso prodotto nella forma dell’instant-book, dell’oggetto editoriale usa e getta, legato alla attualità stretta (e quindi concorrente insidioso per il lavoro di contrappunto semestrale o trimestrale delle riviste); e dall’altra dal dominio assoluto del web: i siti, la rete, facebook, il twitter persino. Del resto è difficile oggi, per una rivista sia pure prestigiosa, “avere una linea”, seguire una bussola, proporre un progetto: perché viviamo l’età infelice del tramonto dei grandi progetti e siamo tutti privi delle bussole del passato.
Forse dovremmo ragionare di più su questa, che è la grande rivoluzione culturale del nostro tempo: la condanna a navigare a vista, l’indeterminatezza, la provvisorietà. Un diritto alla parola esteso indiscriminatamente a tutti e perciò stesso forse sempre sul punto di perdersi, perché espresso in forme dirette e istantanee, umorali; fondato sull’abolizione della mediazione culturale che era tradizionalmente rappresentata dalla rivista o dal giornale: decido io cosa mettere in pagina nel mio sito, filtro io i contenuti, li organizzo e li collego razionalmente io, li colloco io in un contesto che sarà quello che io voglio che sia.
Tutta questa, che era l’attività fondamentale delle riviste e ne costituiva in definitiva l’identità di soggetti attivi, tutto lo spazio della razionalizzazione culturale ad opera dei gruppi intellettuali che intorno alle riviste si raccoglievano e agivano, vengono oggi come inghiottiti da una innovazione tecnologica che consente per la prima volta ad ognuno di costruirsi il suo piccolo pulpito in rete (la sua piccola rivista personale, in fondo), abroga le gerarchie culturali, porta nella grande rete, senza mediazione alcuna, in forma individuale e precaria, la riflessione personale di ciascuno. E alla fine rischia di sfociare in quel rumore di fondo, quel brusìo indistinto di migliaia di voci, che a volte sembra sovrastarci, indistinto, indecifrabile, inquietante.
E’ un bene o un male? E’ un bene perché, ci piaccia o meno, il fenomeno rappresenta la dinamica fondamentale della democrazia dei nostri tempi. Uno studioso, Luigi Ceccarini, ha appena scritto un libro per Il Mulino, che affronta con ottimismo l’avvento del nuovo contesto segnato dall’informatica: La cittadinanza online. Alcuni sono catastrofisti. Io tra gli “apocalittici” e gli “integrati” (per citare un celebre ossimoro di Umberto Eco di tanti anni fa) resto incerto (ma apocalittico certamente non voglio esserlo). In altri termini, penso che la modernizzazione sia inevitabile. Certo, presenta un conto duro da pagare, ed è precisamente la messa fuori gioco definitiva di quello spazio di metabolizzazione culturale che le élites intellettuali tradizionalmente occupavano anche attraverso le riviste.
Cosa resta oggi delle riviste? Tutte sono ridotte in una nicchia sempre più circoscritta (basta vedere gli abbonamenti). Tutte vivono di circuiti quasi amicali: professionali, elitari, di tendenza.
Quale il loro destino? Penso che dovremmo discutere di questo. Ad esempio: ha senso continuare col cartaceo o dobbiamo puntare sulla presenza in rete? Una rivista che mi piace molto e alla quale mi capita ogni tanto di collaborare, “Scienza & Politica” di Pierangelo Schiera, pur essendo la sede di raffinate elaborazioni intellettuali, ha scelto decisamente di andare in rete. Sarebbe interessante avere qualche dato su questo esperimento.
Pongo anche un altro problema, che riguarda noi e forse anche altre riviste. Noi di “Le Carte e la Storia” siamo una rivista libera, nata oltre 20 anni fa al di fuori dell’università, da una “alleanza” (su cui subito mi intratterrò) tra studiosi accademici, archivisti, bibliotecari, dirigenti e funzionari delle istituzioni. Era un tentativo coraggioso di forzare i limiti della cultura accademica (l’Italia ha il record mondiale, credo, della frammentazione delle discipline universitarie, ognuna gestita da una corporazione a fini di reclutamento interno e controllo culturale e di potere). Voleva affermare un modo diverso di studiare le istituzioni, senza troppo preoccuparsi della omogeneità degli approcci, privilegiando l’oggetto, non la qualificazione degli attori. In un recente bilancio dell’histoire de droit pubblicato in Francia a cura di Jacques Krynen e Bernard d’Alteroche si può vedere come questo metodo (se così vogliamo chiamarlo) prevalga anche oltralpe, come del resto si è affermato da sempre nei paesi di cultura anglosassone.
Ebbene, pur essendo noi fuori dell’organizzazione accademica in senso stretto, ci è stato riconosciuto tuttavia di recente un ruolo di prestigio nel sistema attuale della valutazione scientifica accademica. Rendiamo conto e siamo a nostra volta valutati dall’Anvur (siamo, come si dice, in fascia A per un certo numero di settori disciplinari). Ogni articolo che pubblichiamo è sottoposto al giudizio e alla eventuale revisione di due o più referee. Dalla pubblicazione deriva all’autore una certa classificazione nella valutazione scientifica.
Voglio accennare a cosa comporta un simile riconoscimento, che pure ci inorgoglisce. E’ una responsabilità infatti che in certo modo ricade sulla nostra stessa identità di rivista.
Prima eravamo liberi di pubblicare a seconda dei nostri soli progetti culturali, attingendo ad autori che noi stessi coinvolgevamo nella rivista perché aderivano al nostro progetto culturale. Oggi siamo pressati da autori (specialmente giovani) che hanno bisogno di pubblicare per ragioni di curriculum universitario e siamo costretti a lasciare di fatto il giudizio sui loro saggi – salvo un primo screening redazionale – ai referee esterni.
Dunque sta cambiando la natura del nostro modo di fare la rivista. E il problema che ci troviamo ad affrontare è quello di mantenere la nostra identità originaria ma al tempo stesso di svolgere, in modo possibilmente obiettivo, un ruolo di selezione e proposta culturale che ci deriva da una responsabilità pubblica. Vi consegno questo tema, come uno di quelli che dovremmo per necessità proporci anche in prossime occasioni, per lo meno quelli di noi che fanno riviste di ambito anche scientifico.
Concludo. Ho descritto, forse malamente, un contesto che è cambiato e che cambia e che certamente cambierà ancora. E in quel contesto, non nel vecchio che abbiamo alle spalle, che dovremo cercare un ruolo per le nostre riviste. In questo nuovo mondo la produzione culturale è ridondante, persino schiacciante, ma priva di bussole e di stazioni di monitoraggio. Navighiamo a vista, pure invidiando le certezze sulla rotta che caratterizzavano le riviste del passato.
Ma se fosse qui, specificamente nell’adattarsi alla grande rete della cultura globale, il ruolo specifico delle nostre riviste? Se ci toccasse precisamente questa parte: di costituire, nel fluire continuo della cultura in rete, gli snodi di pausa e di riflessione, le stazioni di un rallentamento del flusso, di una sua razionalizzazione della quale forse sentiamo tutti il bisogno? Se toccasse a noi di mettere sotto la lente della critica, di raffinare i contenuti “veloci” e per definizione volatili, della produzione culturale?
Insomma, tra il libro e il twit, c’è forse uno spazio, che va difeso e protetto, che va riempito di contenuti: ed è lo spazio della ricucitura culturale, della riaggregazione dei pensieri sparsi, della paziente ridefinizione dei concetti, della sintesi e dell’ordine. Ricucire, come Penelope faceva con la tela, ciò che è strutturalmente frammentario. Ridare un ordine al disordine fisiologico del presente (e ancor più a quello che si prospetta nel futuro).
Mi direte, e sarebbe l’obiezione legittima: ma non era questo un tempo il compito della politica? Ebbene, in certo senso sì. Ed è dalla latitanza, forse dalla definitiva abdicazione della politica, che deriva il vuoto che le riviste di cultura potrebbero concorrere oggi a riempire.
Con modestia, ognuno nel suo ambito circoscritto: lavorare a questa trama, rifacendo di notte e nel chiuso delle pagine modeste delle nostre riviste, quello che di giorno viene disfatto dai grandi e potenti media che emettono comunicazione e cultura prêt-à-porter.