Cari amici, cari lettori,
guardate bene la copertina di questo numero: il vostro occhio si appoggerà istintivamente sul bel grumo di colore che sembra conchiudere un piccolo universo di forme. Potrete forse immaginare di vedere monti, pendii, laghi, ma forse anche la trombetta di un bambino, o solo una spatolata – ciò che la vostra fantasia vi suggerirà al di là di ciò che vedete. Non vi dovrà sfuggire però che quel piccolo mondo è in realtà appeso a un margine, quello della tela dell’artista, sospeso al confine tra due grandi aree chiare, neutre: quella della tela, geometrica e chiusa, a sinistra; l’altra del muro, ruvida ed estesa, a destra e in alto.
Quella concrezione di colore avrebbe assunto un significato diverso se l’artista Renato Ranaldi l’avesse posta al centro della tela o se, viceversa, ne avesse fatto una piccola scultura. Questo per dire che Ranaldi ha operato una scelta che è al tempo stesso artistica e geopolitica, scegliendo di valorizzare la condizione dello stare in bilico tra due mondi.
Immaginiamo ora che la macchia di colore sia una regione abitata. Dove guardano i suoi abitanti? Verso il muro ruvido e indistinto dello sfondo, cioè verso le profondità di un Oriente che nessuno sa dire dove abbia inizio? O verso quel rettangolo liscio e squadrato che sorge a Occidente e la cui geometria chiusa sembra promettere una realtà rassicurante?
E non ci sono solo l’Oriente e l’Occidente, ognuno dei quali ha un suo Settentrione e un suo Meridione. Ci sono anche il passato e il futuro. E gli sguardi degli abitanti del piccolo universo colorato mescolano di continuo, istintivamente forse, orientazione geografica e orientazione temporale.
Essere abitanti di un mondo di confine non è cosa facile – soprattutto se quel confine separa l’Europa e i Balcani. Gli abitanti anziani hanno davanti agli occhi le ferite del passato, sempre pronte a riaprirsi, e si rifugiano in una nostalgia senza speranza – nostalgie di un impero, nostalgie di un comunismo, comunque nostalgia di un’appartenenza a un mondo grande abbastanza da vederli, ma non tanto da ignorarli. I giovani, meno segnati dai traumi della storia, sono invece pronti a lasciarsi il passato alle spalle e a partire verso un futuro che è l’Occidente; anche se lì, a Occidente, non è detto che l’Europa sia sempre pronta ad accoglierli.
Dunque, oggi, davanti alla propria decadenza economica, politica e culturale, l’Unione Europea dovrebbe riconoscere che l’unità monetaria richiede un’unità politica sostanziale; e dovrebbe quindi riprendere in mano il progetto, abbandonato da tempo, della «rivoluzione europea» auspicata dal Manifesto di Ventotene, così da assicurare a tutti gli europei un futuro pluriverso e simmetrico.
Questa evoluzione dovrebbe anche contemplare un ulteriore rapido allargamento per comprendere, all’interno dell’Unione, quella che è da sempre la sua sponda orientale, la balcanica. Quella sponda orientale capirebbe così che ogni periferia può essere al centro; anzi, deve esserlo: per tenere lontano la minaccia di rigurgiti nazionalistici e, allo stesso tempo, per proporre percorsi necessari alla costruzione di un nuovo ordine mondiale a cui chiediamo solo un po’ di ragionevolezza e cioè, per dirla con i filosofi, una ragione critica e non una ragion cinica.
C’è un punto di sintesi? Sì, ed è azzurro, è un mare stretto e poco profondo, è l’Adriatico, che sta da millenni a cullare misteri, contraddizioni, guerre, scambi, commerci, culture. Lo si può attraversare facilmente: basta una barca a vela – o una carretta scassata e puzzolente. E la ciambella che può portarci dall’una all’altra si chiama politica, certo, ma prima ancora cultura. Come a dire che solo la letteratura, la musica, l’arte e la scienza potranno salvarci.
Buona lettura a tutti,
Il Direttore